La terapia con le famiglie
Succede più raramente di ricevere richieste di consultazione psicologica da parte di nuclei familiari, rispetto alle domande di aiuto individuali.
In questi ultimi casi, le cose sono relativamente più semplici perché la persona si è già assunta la responsabilità del proprio problema, non deve rendere conto ad altri o di altri. Dopo aver accolto la sua domanda, ascoltato la sua storia e averle chiarito le mie modalità di lavoro, mi basta accertarmi della sua disponibilità ad iniziare insieme un percorso di psicoterapia personale e soprattutto interrogare la sua reale motivazione ad intraprenderlo.
Il discorso si complica se la domanda è portata da più persone o per conto di qualcun altro. Più persone significa più domande, esigenze differenti, prospettive e consapevolezze del problema spesso molto distanti, difficoltà o non volontà di comunicazione tra i vari protagonisti… E tutto questo prima ancora di arrivare alla richiesta di aiuto vera e propria, all’elaborazione della domanda.
Una situazione molto comune, forse la più frequente in assoluto, si presenta quando alcuni membri della famiglia, tipicamente i genitori, arrivano in studio portandomi un Problema da risolvere, una sofferenza da guarire, e cioè il disagio di uno dei figli che può esprimersi in diversi modi (manifestazioni sintomatiche quali difficoltà scolastiche, di relazione, col cibo, disturbi dell’umore, comportamenti inadeguati mai manifestatisi in passato, ecc..). Ho scritto Problema con la lettera maiuscola per far capire come i genitori, gravati dalla preoccupazione, in ansia e angosciati per il figlio, tendano inconsciamente a considerarlo come un problema a sé stante, come se riguardasse esclusivamente la vita del ragazzo senza considerare che, quasi sicuramente, il suo malessere deve avere qualche legame, contatto, ragion d’essere anche all’interno delle relazioni familiari. Senza pensare che, così come questo malessere si ripercuote negativamente sull’ambiente familiare, deve anche essere una conseguenza o per lo meno essere favorito dal medesimo ambiente, dato che i legami familiari, coi genitori in particolare, rappresentano per tutti l’imprinting ed il primo e più importante campo di prova.
Il tentativo dei genitori di isolare la difficoltà del figlio, vedendola come il problema da trattare e risolvere, riflette anche la loro idea di mantenere un giusto distacco in modo da poterla affrontare con lucidità (senza farsi troppo coinvolgere), come se si trattasse di un oggetto delicato da aggiustare con cautela, meglio ancora se a ripararlo ci pensa uno specialista esperto che in teoria dovrebbe possedere gli strumenti più adeguati all’intervento.
Il mio obiettivo in tali situazioni è far capire che dev’esserci un coinvolgimento di tutti gli attori sulla scena, non solo del cosiddetto “paziente designato”. Devo accertarmi della disponibilità a mettersi in gioco di tutti, chiarendo che la mia sarà una posizione attiva e di facilitazione della comunicazione tra i diversi membri, che accoglierò e valorizzerò le ragioni, i vissuti e i desideri di ognuno; ma che, per poterlo fare, avrò bisogno che anche i genitori siano disposti e rimettersi in discussione, che entrambi condividano la mia proposta terapeutica e si muovano attivamente per portarla avanti. Ho bisogno che siano protagonisti della psicoterapia e non spettatori passivi.
Pur comprendendo la loro preoccupazione che può facilmente portare ad assumere un atteggiamento di “delega” del problema del figlio allo psicologo, con la preghiera di risolverlo, faccio subito presente che sarà necessario l’apporto di tutti, ognuno con le proprie modalità, limiti e potenzialità, ma tutti accumunati dal medesimo obiettivo di ristabilire una serenità familiare.
Spesso questo modo di affrontare la situazione, che prende in considerazione ritenendoli importanti i vissuti di ogni membro della famiglia, fa sì che vengano alla luce durante la terapia tanti aspetti problematici (e non) che inizialmente non erano nemmeno contemplati come fattori significativi. A volte le dinamiche di coppia disfunzionali, i desideri insoddisfatti di uno dei genitori, le frustrazioni lavorative, piuttosto che nodi mai sciolti e chiariti prima dell’arrivo dei figli, possono ripercuotersi sul clima familiare in modi che sembrerebbe impossibile far risalire alle fonti reali. Se si riesce a far riemergere questi conflitti nell’ambiente protetto dello studio e sotto la guida attenta e partecipe dello psicologo, i nodi si sciolgono, la situazione si chiarisce e le dinamiche familiari ne beneficiano subito, ritornando ad essere più facili e “naturali”.
Certamente ogni famiglia che mi contatta ha la propria storia da raccontare e problemi diversi da affrontare, generalizzare è sempre una forzatura e il mio intervento è ovviamente personalizzato e tarato su ogni situazione, ma in questo articolo intendevo spiegare questo aspetto a mio avviso peculiare della psicoterapia con le famiglie: il paziente in cura non può essere solo uno, magari quello con le maggiori difficoltà e coi sintomi più preoccupanti, il paziente è rappresentato dall’intero nucleo familiare, perché l’obiettivo è che tutti stiano meglio e per raggiungerlo è bene che tutti contribuiscano al benessere comune, condividendo e partecipando alla terapia.
Succede più raramente di ricevere richieste di consultazione psicologica da parte di nuclei familiari, rispetto alle domande di aiuto individuali.
In questi ultimi casi, le cose sono relativamente più semplici perché la persona si è già assunta la responsabilità del proprio problema, non deve rendere conto ad altri o di altri. Dopo aver accolto la sua domanda, ascoltato la sua storia e averle chiarito le mie modalità di lavoro, mi basta accertarmi della sua disponibilità ad iniziare insieme un percorso di psicoterapia personale e soprattutto interrogare la sua reale motivazione ad intraprenderlo.
Il discorso si complica se la domanda è portata da più persone o per conto di qualcun altro. Più persone significa più domande, esigenze differenti, prospettive e consapevolezze del problema spesso molto distanti, difficoltà o non volontà di comunicazione tra i vari protagonisti… E tutto questo prima ancora di arrivare alla richiesta di aiuto vera e propria, all’elaborazione della domanda.
Una situazione molto comune, forse la più frequente in assoluto, si presenta quando alcuni membri della famiglia, tipicamente i genitori, arrivano in studio portandomi un Problema da risolvere, una sofferenza da guarire, e cioè il disagio di uno dei figli che può esprimersi in diversi modi (manifestazioni sintomatiche quali difficoltà scolastiche, di relazione, col cibo, disturbi dell’umore, comportamenti inadeguati mai manifestatisi in passato, ecc..). Ho scritto Problema con la lettera maiuscola per far capire come i genitori, gravati dalla preoccupazione, in ansia e angosciati per il figlio, tendano inconsciamente a considerarlo come un problema a sé stante, come se riguardasse esclusivamente la vita del ragazzo senza considerare che, quasi sicuramente, il suo malessere deve avere qualche legame, contatto, ragion d’essere anche all’interno delle relazioni familiari. Senza pensare che, così come questo malessere si ripercuote negativamente sull’ambiente familiare, deve anche essere una conseguenza o per lo meno essere favorito dal medesimo ambiente, dato che i legami familiari, coi genitori in particolare, rappresentano per tutti l’imprinting ed il primo e più importante campo di prova.
Il tentativo dei genitori di isolare la difficoltà del figlio, vedendola come il problema da trattare e risolvere, riflette anche la loro idea di mantenere un giusto distacco in modo da poterla affrontare con lucidità (senza farsi troppo coinvolgere), come se si trattasse di un oggetto delicato da aggiustare con cautela, meglio ancora se a ripararlo ci pensa uno specialista esperto che in teoria dovrebbe possedere gli strumenti più adeguati all’intervento.
Il mio obiettivo in tali situazioni è far capire che dev’esserci un coinvolgimento di tutti gli attori sulla scena, non solo del cosiddetto “paziente designato”. Devo accertarmi della disponibilità a mettersi in gioco di tutti, chiarendo che la mia sarà una posizione attiva e di facilitazione della comunicazione tra i diversi membri, che accoglierò e valorizzerò le ragioni, i vissuti e i desideri di ognuno; ma che, per poterlo fare, avrò bisogno che anche i genitori siano disposti e rimettersi in discussione, che entrambi condividano la mia proposta terapeutica e si muovano attivamente per portarla avanti. Ho bisogno che siano protagonisti della psicoterapia e non spettatori passivi.
Pur comprendendo la loro preoccupazione che può facilmente portare ad assumere un atteggiamento di “delega” del problema del figlio allo psicologo, con la preghiera di risolverlo, faccio subito presente che sarà necessario l’apporto di tutti, ognuno con le proprie modalità, limiti e potenzialità, ma tutti accumunati dal medesimo obiettivo di ristabilire una serenità familiare.
Spesso questo modo di affrontare la situazione, che prende in considerazione ritenendoli importanti i vissuti di ogni membro della famiglia, fa sì che vengano alla luce durante la terapia tanti aspetti problematici (e non) che inizialmente non erano nemmeno contemplati come fattori significativi. A volte le dinamiche di coppia disfunzionali, i desideri insoddisfatti di uno dei genitori, le frustrazioni lavorative, piuttosto che nodi mai sciolti e chiariti prima dell’arrivo dei figli, possono ripercuotersi sul clima familiare in modi che sembrerebbe impossibile far risalire alle fonti reali. Se si riesce a far riemergere questi conflitti nell’ambiente protetto dello studio e sotto la guida attenta e partecipe dello psicologo, i nodi si sciolgono, la situazione si chiarisce e le dinamiche familiari ne beneficiano subito, ritornando ad essere più facili e “naturali”.
Certamente ogni famiglia che mi contatta ha la propria storia da raccontare e problemi diversi da affrontare, generalizzare è sempre una forzatura e il mio intervento è ovviamente personalizzato e tarato su ogni situazione, ma in questo articolo intendevo spiegare questo aspetto a mio avviso peculiare della psicoterapia con le famiglie: il paziente in cura non può essere solo uno, magari quello con le maggiori difficoltà e coi sintomi più preoccupanti, il paziente è rappresentato dall’intero nucleo familiare, perché l’obiettivo è che tutti stiano meglio e per raggiungerlo è bene che tutti contribuiscano al benessere comune, condividendo e partecipando alla terapia.