Guarire dall’anoressia con l’aiuto dello psicologo
Nel precedente articolo sul disturbo dell’anoressia non ho volutamente nemmeno accennato al discorso della cura, non sarebbe stato possibile in così poco spazio affrontare in modo esaustivo un tema tanto complesso.
Inizio subito col chiarire che il mio approccio terapeutico, quindi il mio modo di lavorare coi pazienti, prende le basi dalla pratica psicoanalitica. Uno degli assunti di base, fondamentali, che guida il mio lavoro, è che ogni sintomo raccontato dal paziente non deve essere aggredito col fine di debellarlo ma prima di tutto ascoltato e compreso, per decifrarne il messaggio latente. Una volta inserito nella storia personale del soggetto, come la tessera mancante di un puzzle, scomparirà naturalmente e non avrà più ragioni per tornare a farsi sentire in modo doloroso ed invalidante, perché averlo ascoltato e capito gli avrà fatto perdere la voce.
Tornando all’anoressia, il concetto appena esposto si può declinare in questo modo: il sintomo anoressico, il rifiuto del cibo, è sia il segnale di qualcosa che non funziona più, sia un messaggio importante da decifrare, che sta cercando di comunicare qualche verità. Potrebbe trattarsi di un’estrema difficoltà di separarsi dal contesto familiare, una richiesta di amore, la reazione ad una delusione sentimentale che porta ad una chiusura totale rispetto ai legami con gli altri… Ma per questo rimando all’articolo precedente, in cui ho affrontato questa tematica.
Di qualsiasi comunicazione si tratti, è giusto che venga espressa, ascoltata e compresa, prima di tutto dalla stessa paziente. Non bisogna precipitarsi a far scomparire il sintomo prima di averne accolto e capito il messaggio, perché cercare di scardinarlo con forza avrà come esito soltanto un suo rafforzamento.
La prima difficoltà incontrata dal terapeuta consiste nell’incrinare la convinzione della ragazza che la malattia si riduca ad un problema di peso o di cibo, per aiutarla a parlare finalmente di sé, non solo del suo corpo o della sua dieta alimentare. Quest’operazione viene in gergo tecnico definita “disidentificazione dal sintomo”. Spesso le ragazze che soffrono di disturbi del comportamento alimentare si presentano in questo modo: “Sono un’anoressica, sono una bulimica”, come se si identificassero totalmente col loro problema, mentre questo dev’essere inserito in un discorso, dev’essere simbolizzato, per trovare un senso e una risoluzione.
Un altro grosso ostacolo nella terapia della ragazza anoressica riguarda il fatto che inizialmente la malattia viene percepita come una soluzione ai suoi travagli interiori, una conquista irrinunciabile e l’unica difesa contro i pericoli delle relazioni affettive e dei legami di dipendenza. Perciò la cura viene all’inizio percepita come una minaccia alla dinamica chiusa del rifiuto (del cibo e di tutto il resto), che le procura notevoli benefici, la difende da molti rischi e garantisce i cosiddetti vantaggi secondari.
L’obiettivo della cura consiste perciò nel permettere alla paziente di riflettere sul senso del suo disturbo, di inserirlo nella storia della sua vita, ricordandone gli eventi importanti e come sono stati vissuti, in modo da farle capire che i vantaggi paradossali che la malattia le assicura non le sono necessari, che l’anoressia ha un costo insostenibile e implica delle perdite gravissime a paragone dei pericoli da cui la difende.
Per evitare che la cura non sfoci in un altro rifiuto da parte della ragazza, che si può sentire minacciata da qualcuno che vuole scardinare la sua difesa vitale più preziosa, il terapeuta deve avere un profondo e sincero rispetto per la funzione che la malattia ha fino a quel momento esercitato nella sua vita. Non deve precipitarsi ad aggredire il sintomo anoressico per cancellarlo ma accoglierlo, aiutando la paziente a chiarirlo, ascoltarlo e rispettarlo, perché ha comunque avuto una funzione per lei importante, e soprattutto non deve focalizzarsi solo su quello: il rapporto col cibo, paradossalmente, è l’ultima cosa da considerare durante la terapia.
La cura non dev’essere una rieducazione alimentare ma deve svilupparsi attraverso la relazione buona che si crea tra paziente ed analista.
Elementi fondamentali sono la posizione di ascolto rispettoso del terapeuta, la fiducia della paziente nella relazione con lui, il desiderio di entrambi di comprendere il disagio e, può sembrare banale, il fattore gentilezza: cioè non odiare il sintomo, non trattare il corpo della ragazza come un oggetto da aggiustare (spesso queste donne hanno subito trafile di visite, ricoveri, trattamenti forzati…), non giudicare, non pesare le persone come le bilance su cui salgono continuamente.
“Se l’anoressia è un congelamento della vita, la cura dell’anoressia consisterà in una sua rivivificazione”.
Un segnale importante della guarigione è rappresentato dal riattivarsi dell’interesse verso il mondo delle relazioni affettive, ad esempio potrebbe trattarsi di un innamoramento improvviso. Non si lavora per far tornare l’appetito ma per far tornare il desiderio, se il desiderio tornerà a vivere, anche l’appetito riprenderà il suo ritmo.
“Il rapporto col cibo si pacifica quando, grazie alla relazione con l’analista, il desiderio per la vita, la femminilità e la fiducia nell’altro ridiventano vivibili e sopportabili per la paziente. Saper amare, saper desiderare, saper trattare il desiderio del’altro senza sfuggirgli”.
Nel precedente articolo sul disturbo dell’anoressia non ho volutamente nemmeno accennato al discorso della cura, non sarebbe stato possibile in così poco spazio affrontare in modo esaustivo un tema tanto complesso.
Inizio subito col chiarire che il mio approccio terapeutico, quindi il mio modo di lavorare coi pazienti, prende le basi dalla pratica psicoanalitica. Uno degli assunti di base, fondamentali, che guida il mio lavoro, è che ogni sintomo raccontato dal paziente non deve essere aggredito col fine di debellarlo ma prima di tutto ascoltato e compreso, per decifrarne il messaggio latente. Una volta inserito nella storia personale del soggetto, come la tessera mancante di un puzzle, scomparirà naturalmente e non avrà più ragioni per tornare a farsi sentire in modo doloroso ed invalidante, perché averlo ascoltato e capito gli avrà fatto perdere la voce.
Tornando all’anoressia, il concetto appena esposto si può declinare in questo modo: il sintomo anoressico, il rifiuto del cibo, è sia il segnale di qualcosa che non funziona più, sia un messaggio importante da decifrare, che sta cercando di comunicare qualche verità. Potrebbe trattarsi di un’estrema difficoltà di separarsi dal contesto familiare, una richiesta di amore, la reazione ad una delusione sentimentale che porta ad una chiusura totale rispetto ai legami con gli altri… Ma per questo rimando all’articolo precedente, in cui ho affrontato questa tematica.
Di qualsiasi comunicazione si tratti, è giusto che venga espressa, ascoltata e compresa, prima di tutto dalla stessa paziente. Non bisogna precipitarsi a far scomparire il sintomo prima di averne accolto e capito il messaggio, perché cercare di scardinarlo con forza avrà come esito soltanto un suo rafforzamento.
La prima difficoltà incontrata dal terapeuta consiste nell’incrinare la convinzione della ragazza che la malattia si riduca ad un problema di peso o di cibo, per aiutarla a parlare finalmente di sé, non solo del suo corpo o della sua dieta alimentare. Quest’operazione viene in gergo tecnico definita “disidentificazione dal sintomo”. Spesso le ragazze che soffrono di disturbi del comportamento alimentare si presentano in questo modo: “Sono un’anoressica, sono una bulimica”, come se si identificassero totalmente col loro problema, mentre questo dev’essere inserito in un discorso, dev’essere simbolizzato, per trovare un senso e una risoluzione.
Un altro grosso ostacolo nella terapia della ragazza anoressica riguarda il fatto che inizialmente la malattia viene percepita come una soluzione ai suoi travagli interiori, una conquista irrinunciabile e l’unica difesa contro i pericoli delle relazioni affettive e dei legami di dipendenza. Perciò la cura viene all’inizio percepita come una minaccia alla dinamica chiusa del rifiuto (del cibo e di tutto il resto), che le procura notevoli benefici, la difende da molti rischi e garantisce i cosiddetti vantaggi secondari.
L’obiettivo della cura consiste perciò nel permettere alla paziente di riflettere sul senso del suo disturbo, di inserirlo nella storia della sua vita, ricordandone gli eventi importanti e come sono stati vissuti, in modo da farle capire che i vantaggi paradossali che la malattia le assicura non le sono necessari, che l’anoressia ha un costo insostenibile e implica delle perdite gravissime a paragone dei pericoli da cui la difende.
Per evitare che la cura non sfoci in un altro rifiuto da parte della ragazza, che si può sentire minacciata da qualcuno che vuole scardinare la sua difesa vitale più preziosa, il terapeuta deve avere un profondo e sincero rispetto per la funzione che la malattia ha fino a quel momento esercitato nella sua vita. Non deve precipitarsi ad aggredire il sintomo anoressico per cancellarlo ma accoglierlo, aiutando la paziente a chiarirlo, ascoltarlo e rispettarlo, perché ha comunque avuto una funzione per lei importante, e soprattutto non deve focalizzarsi solo su quello: il rapporto col cibo, paradossalmente, è l’ultima cosa da considerare durante la terapia.
La cura non dev’essere una rieducazione alimentare ma deve svilupparsi attraverso la relazione buona che si crea tra paziente ed analista.
Elementi fondamentali sono la posizione di ascolto rispettoso del terapeuta, la fiducia della paziente nella relazione con lui, il desiderio di entrambi di comprendere il disagio e, può sembrare banale, il fattore gentilezza: cioè non odiare il sintomo, non trattare il corpo della ragazza come un oggetto da aggiustare (spesso queste donne hanno subito trafile di visite, ricoveri, trattamenti forzati…), non giudicare, non pesare le persone come le bilance su cui salgono continuamente.
“Se l’anoressia è un congelamento della vita, la cura dell’anoressia consisterà in una sua rivivificazione”.
Un segnale importante della guarigione è rappresentato dal riattivarsi dell’interesse verso il mondo delle relazioni affettive, ad esempio potrebbe trattarsi di un innamoramento improvviso. Non si lavora per far tornare l’appetito ma per far tornare il desiderio, se il desiderio tornerà a vivere, anche l’appetito riprenderà il suo ritmo.
“Il rapporto col cibo si pacifica quando, grazie alla relazione con l’analista, il desiderio per la vita, la femminilità e la fiducia nell’altro ridiventano vivibili e sopportabili per la paziente. Saper amare, saper desiderare, saper trattare il desiderio del’altro senza sfuggirgli”.